Ultima domenica dell’anno. Come da tradizione, con gli amici speleologi ci diamo appuntamento sul Monte Janara, una cima facile nei monti del Matese; il posto è molto panoramico, perfetto per stappare una bottiglia e scambiarci gli auguri. Su queste montagne ci siamo cresciuti, vi abbiamo esplorato grotte e profonde gole, conosciamo a menadito i sentieri, che vanno per boschi, radure e pietraie.
Dalla cima di monte Janara lo sguardo si spinge a sud verso il preappennino campano, con la sagoma del Vesuvio sullo sfondo. Dall’altra parte, a nord, c’è la Piana delle Secine con la sua quinta di cime, il Monte Miletto e le pareti della Gallinola; da una parte, oltre il borgo di Letino, i denti delle Mainarde; dall’altra una delle conche e dei laghi carsici più imponenti dell’Appennino, le cui acque scivolano in un enorme inghiottitoio ancora inesplorato.
Il Matese è terra di grotte: in quella di Campo Rotondo, proprio ai piedi di monte Janara, si inabissa un bel torrente; poco più in là corrono i fiumi sotterranei del Cavuto e di Campo Braca, e quelli di altre centinaia di caverne, fratture, meandri, pozzi, sale e gallerie. L’acqua scioglie il calcare, e scava in questa montagna grandi abissi, menomille famosi come Cul di Bove e Pozzo della Neve.
Ci passa tanta acqua, in queste grotte, e tanta aria. L’aria entra dalle fessure e percorre i grandi bui sotterranei, e spesso noi speleologi la seguiamo per trovare la prosecuzione ai nostri sogni esplorativi.
Quante volte abbiamo navigato nei vuoti di questo Matese; ne abbiamo attraversato le sale, ci siamo arrampicati sulle frane sotterranee, ci siamo infilati tra gli specchi di faglia striati e lisci. Quante volte abbiamo poggiato il palmo della mano su quelle superfici di roccia levigata, e lì, nel buio silenzioso delle grotte, ne abbiamo sentito la potenza muta. Questa montagna, come quasi tutto l’Appennino, si è sollevata sospinta dalla tettonica, che ha deformato le rocce, le ha piegate e le ha spezzate in faglie. Esplorando grotte abbiamo una percezione forse maggiore, o più acuta, del volume di una montagna: oltre alle grandi superfici, vediamo le loro immense profondità; non ne abbiamo soltanto una percezione spaziale, ma anche, come dire, volumetrica. Con le grandi masse di roccia, e col loro contenuto di vuoti e di spinte e di silenzi, sviluppiamo una strana empatia.
Ero proprio lì, in Matese, quando è arrivata la scossa forte. Domenica 29 dicembre 2013, alle 18.08 la terra si è messa a ondeggiare. È stato fantastico, per certi versi; mostruosamente fantastico. Era un’onda lunga e cullava una barca in mezzo al mare.
Altri terremoti li ho sentiti vibrare, tremare, agitarsi, scuotere; questo no: era calmo, sicuro di sé, orribilmente materno, accogliente e ineluttabile. La roccia al di qua e al di là della faglia si è mossa, emanando energia con un’infusione lenta. La terra era molle, flessuosa: non ha tremato, ha cullato. E mentre cullava dolcemente, stava muovendo le cime e le pareti, le remote vallate e i boschi di faggio e, per decine e centinaia di chilometri, la campagna e i paesi, impigriti dal tardo pomeriggio di dicembre.
In quel movimento progressivo, prolungato e lento mi è parso di sentire il torpore della montagna e delle sue radici. È un calcare profondissimo, quello del Matese, e inequivocabilmente vivo. Mentre tutto ondeggiava mollemente e senza scossoni, l’ho sentito respirare. Potrei giurarci: ho sentito la montagna respirare.
Chi, come me, è nato e cresciuto al sud, reca il segno indelebile del sisma dell’80. I miei sono ricordi di un bambino impaurito, smarrito; si perdono in una notte umida rischiarata dai fumi neri dei copertoni bruciati per strada per scaldare bivacchi di fortuna. Quella notte non vidi morti, né feriti, né crolli; ma ricordo nettamente la vibrazione cruda che scuoteva ogni cosa, ferocemente, e la faceva suonare. Ricordo il rumore dei muri e dei pilastri e delle trombe di scale. E le urla e i pianti, le corse, il terrore. Io avevo otto anni, gridai: «Un mostro muove la casa!».
Chi c’era, non ha mai più dimenticato dove si trovasse e cosa stesse facendo, alle 19.34 di quel 23 novembre.
Stavolta l’energia è stata molto minore, per fortuna, ma è arrivata con un ritmo diverso. Mi trovavo in aperta campagna e, tranquillo per l’assenza di tetti sulla testa, mi sono goduto lo spettacolo. Il mostro muoveva tutto, e si muoveva esso stesso, lentamente.
Sul Matese ci sono cresciuto. In questi boschi, in queste grotte, su queste cime ho trascorso giorni e settimane e mesi, per oltre vent’anni. Ora vivo altrove e ci torno un po’ meno, ma mi ci sono ritrovato proprio quando la terra si è messa a ondeggiare. Lo so, mi darete del matto, ma essere nel mio Matese durante il terremoto mi è sembrato un privilegio.
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